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31.03
Calcio: Rigore mondiale. L'Italia campione del mondo 2006

Proseguono i racconti mondiale di Yupper. E' il 2006, siamo a Berlino, a 11 metri dalla gloria. Sul dischetto c'è un terzino, Fabio Grosso...

Tutto era fermo. Il portiere davanti a lui lo guardava, era sfida, deconcentrazione, tensione. Undici metri. Solo undici metri, lui contro quell’altro. Il resto non c’era. O meglio, c’era, esisteva, ma non lo sentiva, non sentiva niente, concentrazione la chiamano, ostinazione e voglia di arrivare.

Undici metri, quella la distanza. Potevano essere gli ultimi. In palio non solo c’era la Coppa, ma la gloria, il ricordo duraturo, forse eterno. In quegli undici metri c’era un Paese intero, i sogni di milioni di persone, gente abbracciata nelle piazze, che tirava il fiato, che guardava fisso davanti a se, con le dita incrociate, magari un cornetto rosso come la passione per il pallone. Di rigori ne aveva tirati tanti, sbagliati pochi. Questo però era diverso. Le gambe pesavano di più, il battito accelerava, vorticoso, nel petto. Tutto era rallentato, tutto ad eccezione del suo cuore. I compagni in silenzio, dietro alle sue spalle, non li vedeva, ma li poteva percepire, sapeva che erano lì, aspettavano, come lui del resto attendeva quel fischio che avrebbe messo tutto in gioco, che avrebbe dato il via agli eventi. Non poteva sbagliare, un’occasione del genere non sarebbe più ricapitata, era la sua occasione, il suo momento, quello sognato tutta una vita.

Di strada ne aveva fatta, prima la provincia, quella appassionata e dimenticata, quella che non sale mai sui grandi palcoscenici, fatta di campi un po’ spelacchiati, tribune che stanno in piedi un po’ per miracolo, gente che ti guarda ma che sogna la Serie A, che si innamora dei Maradona, dei Baggio, dei Ronaldinho. Non certo di gente come lui. La provincia delle maglie un po’ brutte, dai colori strani, dove il rossonero, il bianconero, il nerazzurro sono sostituiti dal rosso un po’ spento, dal giallo troppo acceso, dal verde più militare che smeraldo. La provincia fatta di tanta corsa e tante botte, di interventi in scivolata un po’ così, di arbitri con la pancia e con i capelli che quando ci sono affollano solo i lati della testa, oppure giovani, molto giovani, appena adulti, mandati lì a far esperienza a suon di errori.

Piano piano quella provincia se l’era lasciata alle spalle, città più grandi, più belle, più importanti, come gli stadi, stadi veri, palcoscenici di prestigio ogni tanto. La prima volta a San Siro, al Delle Alpi, all’Olimpico. Una nuova vita, quasi come la prima volta che si è fatto l’amore.

E ora quello stadio. Era come se lo vedesse per la prima volta. Undici metri, dischi francesi, silenzio italiano. Nelle sue orecchi solo silenzio, assordante. Denso e vuoto allo stesso tempo.

Uno sguardo al rivale.

Il fischio più atteso.

Il collaudato metodo per partire. Quattro passetti, poi la falcata che si apre, il sinistro che si carica, la palla che parte. Il portiere si butta, il pallone che incrocia, Barthez che invece si stende sulla destra. La palla che si alza, diretta verso la porta. La rete che si gonfia. Gol.

Fabio allarga gli occhi, respira l’aria più pura della sua vita. Lo stadio scoppia, i compagni lo abbracciano. Una sola voce, una sola certezza. Campioni del Mondo, campioni del mondo. Campioni del Mondo.

Giovanni Battistuzzi



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