Il Pirata è stato l'anima e il volto del ciclismo degli anni '90, l'ultimo campione. Ha emozionato e unito, prima, disilluso e tradito, dopo. In mezzo Madonna di Campiglio, era il 1999, Marco iniziò a morire quel giorno.
Gli anni 90 nel ciclismo sono stati tante cose. Il Miguel Indurain dei cinque Tour consecutivi e dei due Giri, uno dei ciclisti più eleganti di cui si ha ricordo, le fughe di Chiappucci e Jalabert, i mondiali di Bugno, gli sprint di Cipollini, le Milano-Sanremo di Zabel, il pavè di Ballerini e Museeuw. Gli anni 90 nel ciclismo sono stati soprattutto e sopra ogni cosa gli scatti di Marco Pantani, le salite di Marco Pantani, i picchi, nel bene o nel male, di Marco Pantani.
Nessun’altro atleta ha saputo unire il popolo degli amanti di questo sport, nessun altro atleta è riuscito a suscitare amore incondizionato, appartenenza e ammirazione come ha fatto lo scalatore romagnolo. Quando correva Pantani non c’erano fazioni, non c’erano coppiani o bartaliani, merckxiani o gimondiani, moseriani o saronniani, chiappucciani o bugnani, c’erano solo pantaniani, perché Pantani, almeno sino a Madonna di Campiglio, non lo si discuteva, lo si amava e basta, con un sentimento fideistico, assoluto. Perché Pantani riempiva i cuori, affollava il cervello, regalava emozioni, passione, speranza. Lui era Calimero e Charly Brown, non Gastone ma Paperino, non Pelè ma Garrincha, non Mazzola ma Meroni. Una vita legata a doppio filo da una sfortuna proverbiale, una scalogna che superava l’immaginabile, quasi mitologica. Lui volava, ma trovava davanti a sé qualcosa che lo riportava a terra, sempre, lo faceva ripartire da zero.
Era proprio questa sfortuna che lo faceva amare, lo rendeva umano, compassionevole. Lui scricciolo di mare davanti a montagne giganti e intramontabili, lui con più punti di sutura in corpo che capelli, lui fragile e dannato. Quando saliva in bicicletta invece Pantani si trasformava, diventava un'aquila, elegante e maestosa, un cavallo selvaggio, veloce e indomabile, un tutt’uno con telaio e pedivelle, con forcella e ruote. Volteggiava, danzava sui pedali. Scattava. Una, due, dieci, cento volte. Sfiancava gli avversari a forza di rasoiate, a forza di muscoli e passione, agonia e colpi di classe.
Pantani è stato sport e teatro, esaltazione e tragedia. Pantani scattava e non era un mistero, dava segnali, si spogliava di occhiali, cappellino e bandana, si alleggeriva del fardello del più forte e iniziava nella sua danza, invitava tutti a seguirlo. C’era chi provava a stargli dietro ed erano battaglie. Ci provò Tonkov a Plan di Montecampione nel 1998, si schiantò, ma con l’onore delle armi, ci provò ma non ci riuscì Ullrich al Tour dello stesso anno, anzi non ci provò nemmeno, troppo forte il Pirata, razzo sul Galibier, finì a quasi nove minuti, 8’59” per l’esattezza, stremato e sconfitto sul traguardo di Les Deux Alpes, ci provò sua maestà Indurain sia sul Mortirolo che sul Valico di Santa Cristina nel 1994, dovette alzare bandiera bianca anche lui. Pantani non lo si poteva seguire, abbatteva barriere e resistenze, un fiume in piena sempre sui pedali, con le mani basse sul manubrio, un’accelerata dopo l’altra, con la classe del predestinato, del prescelto, del fuoriclasse.
Pantani era anarchia e istinto. Il ciclismo diventava industria, piani di allenamento calibrati al millimetro, ricognizioni di studio sulle salite delle grandi corse a tappe, e lui invece andava avanti a suo modo, seguiva le sensazioni chilometro dopo chilometro, usciva ad allenarsi sulle strade di una vita. Non un cardiofrequenzimetro, non un allenatore personale, non ritiri in altura. I soliti scenari, le solite salite, San Marino, Serra Maiolo, poi Passo Carpegna, il test, l’esame, ritorno verso gli strappi di Barbotto e Perticara, oppure di Ciola e Trebbio. Era in quel fazzoletto di terreno tra Romagna e alte Marche che il Pirata vagava alla ricerca delle sensazioni buone, del colpo di pedale giusto, preparava Giri e Tour.
Cadute, ritiri, infortuni, nel mezzo vittorie, importanti, indelebili. Due volte l’Alpe d’Huez, all’Aprica dopo Stelvio e Mortirolo, a Morzine e Guzet-Neige. Il 1998, la doppietta Giro-Tour, quarantasei anni dopo Fausto Coppi, l’unico italiano ad aver centrato l’accoppiata, trentadue anni dopo Felice Gimondi, l’ultimo italiano ad aver trionfato in Francia. Il 1999, quattro vittorie su quattro arrivi in salita, un dominio totale come ad Oropa quando prima della salita finale gli cade la catena, si ferma, la rimette al suo posto, sfilato dal gruppo recupera tutti, anche Jalabert che aveva fatto il diavolo a quattro per ottenere il successo di tappa. Trionfo, chapeau. Sempre il 1999, il 5 giugno, ore 10:10, la cacciata dal Giro di Madonna di Campiglio. Ematocrito a 52 e a casa perché fuori norma. Non dopato, nessuna positività accertata, ma fuori dalla corsa comunque, in quanto malato, ‘tutela della salute’ la chiamano. Lì inizia a morire Pantani, lì il suo mondo gli cade addosso. La stampa attacca, si sente tradita. I tifosi attaccano, si sentono traditi. Quel giorno il partito unico dei pantaniani si spacca. A metà. Per alcuni è un dopato, per altri una vittima, c’è chi lo insulta, chi lo assolve, chi piange, chi ride a vedere l’ennesimo impostore italiano uscire a testa bassa di scena. Sulle strade alpine, che sino ad allora avevano accolto scritte di giubilo di vernice gialla, compaiono siringhe e epo affianco al nome Pantani. La colpa è l’inganno, la sanzione è l’infamia.
Pantani morirà il 14 febbraio del 2004. Dieci anni esatti quest’oggi. Pantani finì di esser Pantani il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio e poco importa del Ventoux e dell’Armstrong strapazzato a Courchevel nel 2002. Pantani non c’era, c’era solo un campione allo sbando. Non un santo, né un truffatore. Un ciclista perso come tutti in quegli anni in strade di montagna e in cascate di Epo, uguali per tutti, nessuno escluso. Probabilmente avrebbe vinto lo stesso, sarebbe stato il migliore lo stesso, perché il doping non trasforma un cardellino in un aquila, un ronzino in Varenne. Probabilmente, però. In verità chissà. Non ci sarà la controprova, nessun ritrovo di ex campioni, nessuna possibilità di rivincita. Pantani è morto solo, in una stanza di una pensione di Rimini. Le circostanze sono note, i retroscena un po’ meno. Il Residence Le Rose è stato abbattuto da un giorno all’altro, come la carriera del Pirata.
Giovanni Battistuzzi
Le illustrazioni in copertina sono state realizzate in esclusiva per Yupper da Enrico Cicchetti (Vernice Fresca).