Due ori di Elia Viviani nei Campionati europei di ciclismo su pista salvano l'Italia dalla debacle. Ma è nero il futuro del nostro movimento in questa disciplina se non inizieranno a cambiare le cose.
Una volta c’era la strada e c’era la pista. E ognuna di queste brillava di luce propria. Chi faceva uno poteva fare anche l’altra e pistard e stradisti lottavano sugli anelli o nelle corse, che fossero a tappe o in linea poco importava. Una volta c’era la strada e c’era la pista. E anche oggi è così, o almeno sulla carta, perché oggi la pista, almeno in Italia, è stata completamente dimenticata ed è rimasta solo la strada.
I fasti andati - Lontani sono i tempi dell’Italia dei velodromi, delle migliaia di persone assiepate in tribuna, delle Sei Giorni di Milano durante la quale i migliori stradisti si sfidavano affiancati dai migliori pistard in un turbine di giri a tutta sul parquet di pino svedese del Vigorelli. Storia antica quella della pista, più antica addirittura del ciclismo che conosciamo noi. Storia immodificabile tanto che, a differenza della disciplina su strada, neppure le bici sono cambiate in oltre cento anni di storia. A scatto fisso sono nate, a scatto fisso continuano ad essere, senza freni, senza niente, se non l’indispensabile per andare forte: le gambe e due ruote. La stessa che usò Romolo Bruni nel 1894 per sfidare Buffalo Bill a cavallo, o almeno la stessa tipologia di modello, ora è usata dagli specialisti di ora, come Elia Viviani, la nostra punta di diamante, perché il nostro movimento non è morto, è certo in stato comatoso, ma riesce in qualche modo a sopravvivere.
La pista continua a darci soddisfazioni - Solo pochi giorni fa, in Olanda, ad Apeldoorm, l’Italia ha colto due ori, grazie soprattutto a Elia Viviani, che nella vita fa il velocista su strada per la Cannondale, ma che porta avanti anche l’impegno in pista e quasi sempre riesce ad andare a medaglia, nonostante il tempo per preparare questi eventi sia abbastanza risicato a causa degli impegni di corsa. Elia è l’eccezione di un movimento che è stato distrutto negli ultimi anni in favore della ossessione stradale della Federazione. Perché la pista è sparita solo in Italia, non nel mondo. In Gran Bretagna, Olanda, Francia, Danimarca e in tutti i paesi nordeuropei ed ex sovietici questa disciplina continua ad avere seguito, fama e soprattutto un suo perché. Ne è un esempio Chris Hoj, britannico, pistard, che nonostante non abbia mai corso su strada è considerato una leggenda oltre Manica, tanto da essere stato nominato Sir, baronetto, per meriti sportivi, al pari di Wiggins, il primo inglese a vincere il Tour de France. Sei ori olimpici, undici titoli mondiali, una leggenda che ancora non ha fine, nonostante l’abbandono dell’attività agonistica nel 2012 dopo l’Olimpiade di Londra.
L’esempio Vigorelli – Se l’Italia non è la Gran Bretagna molto lo si deve alla miopia di chi gestisce il ciclismo tricolore. Perché la nostra storia è fatti di campioni che hanno portato la pista azzurra ai massimi livelli. Silvio Martinello è l’ultimo campione. Il problema che le sue gesta sono ormai lontane quasi vent’anni. Quattro ori mondiali, uno olimpico oltre a quasi trenta Sei Giorni vinte in tredici anni di carriera. Poi la lunga agonia del movimento. La stessa agonia che vive e ha vissuto il nostro velodromo più bello e famoso, il Vigorelli di Milano. Negli anni l’impianto meneghino ha vissuto arrivi di Giri d’Italia, di tappe, di Giri di Lombardia, i record dell’ora di Olmo, di Coppi, di Anquetil, di Baldini e Rivière, le sei giorni di Merckx, Gimondi, Moser e Gianni Motta e un’infinità di campionati italiani, europei e mondiali. Era il nostro vanto, venne abbandonato nel 1985 dopo i danni che la ‘storica nevicata’ di Milano fece alla copertura. Da allora, tante parole e promesse e nessun fatto. Il progetto è quello di creare sulle ceneri del vecchio impianto, ora utilizzato per il Football americano, una nuova pista di 250 metri (omologata per i campionati del mondo) che sostituirebbe quella storica di 400 metri. Ma le parole rimangono molte e i fatti ancora pochi. Intanto il l’Italia della pista a pedali aspetta in una carenza quasi patologica di impianti, di risorse per creare un movimento, di voglia di investire e nel disinteresse di chi ancora oggi dice che a Bartali preferisce Coppi perché andava forte anche in pista. Attacchiamoci a Viviani e ai ragazzi che ancora in questa disciplina ci credono. E storpiando Villeneuve di Claudio Lolli cantiamo: “è bello sapere che siamo delle bestie imperfette e un poco del meglio che forse possiamo fare, è baciare le ragazze e poi, e poi tenerle strette, e poi amare molto Viviani e imparare a pedalare”.