Parte oggi la Grande Boucle. Tre settimane su di un percorso bellissimo pieno di insidie, con prima le Alpi e poi i Pirenei. Occhi puntati sull'italiano che potrebbe essere l'anti inglese.
Il Tour de France per molti anni ha avuto un copione da rispettare, inattaccabile come un dogma. La prima settimana dedicata ai velocisti e alle volate su stradoni larghi e dritti, con magari l’intermezzo di una cronosquadre tanto per movimentare la classifica, poi la prima cronometro, quella vera, di una cinquantina di chilometri, per mordere davvero la classifica. Seguivano 8/9 giorni di montagne, prima i Pirenei e poi le Alpi o viceversa a seconda degli anni, con trasferimento annesso da una catena all’altra. Poi qualche giornata buona per fughe aspettando l’ultima lunga cronometro. Infine la grande festa a Parigi. Da qualche anno questo canovaccio però è stato dimenticato, per fortuna, e il Tour è diventato altro, più bello, interessante, più somigliante al Giro che alla sua storia recente.
La Grande Boucle che inizierà oggi da Leeds è immagine di questa trasformazione. Si annuncia bella e interessante, piena di tranelli e insidie, combattuta e ispiratrice di colpi a sorpresa. Ora tocca ai corridori aguzzare l’ingegno e lavorare di fantasia per detronizzare Froome e gli inglesi che da due anni dominano in Francia. Già nella prima settimana il terreno per inventarsi qualcosa c’è. Non oggi a Leeds, ma già da domani l’altimetria delle tappe inizia a muoversi, le colline del South Yorkshire appariranno all’orizzonte e i ciclisti incontreranno strade strette e colme di curve. Mercoledì le salite lasceranno il posto alle pietre. Pavé. Basta la parola. Si correrà a ritroso il percorso della Parigi-Roubaix sino alla Foresta di Arenberg. Benvenuti all’inferno. Qualcuno si è lamentato sostenendo che il Tour è una corsa di tre settimane e perderla per una foratura sul pavé sarebbe stupido. Gli organizzatori hanno risposto che il percorso è lungo e c’è possibilità per recuperare. Vero. Ci sono i Vogsi, con il Ballon d’Alsace e La Planche des Belles
Filles, nel primo fine settimana a metter salita in più a quelle alpine e pirenaiche, ci sono arrivi in salita e poca cronometro, tra le altre cose al penultimo giorno, quindi muti e pedalare, “il Tour è un mostro da sconfiggere, quindi astenersi fighette”, si leggeva sull’Equipe una trentina di anni fa.
Se la prima settimana ci sarà spazio per scaramucce, dalla seconda si inizia a fare sul serio. Digerito l’antipasto ecco il primo. Ecco le Alpi, non belle e paurose come altre edizioni, ma pur sempre Alpi. C’è l’Izoard, d’accordo, il Lautaret, gli arrivi in salita a Chamrousse e a Risul, ma le cime mitiche sono altre. Sono l’Alpe d’Huez, il Galibier, il Vars e il Col de la Maddeleine, assenti quest’anno, ma giustificati. Le prime montagne a essere affrontate sono sempre l’introduzione al gran finale che attenderà i corridori sui Pirenei. È la tradizione a dirlo, quindi va rispettata e accettata, perché nel ciclismo la tradizione vale quanto la corsa che si sta osservando passare ora. Non c’è stacco, un continuo spazio temporale.
Eccoli dunque i Pirenei, bellezza d’inferno, caldi e imprevedibili, terra francese che sapora di Spagna. Bagnères-de-Luchon, tanto per iniziare, dopo una discesa a tutta giù dal Port de Bàles. Poi Pla d’Adet con Portillon, Peyresourde e Val Louron, come introduzione. Infine le roi Tourmalet prima dell’ascesa di Hautacam.
Qui si vincerà il Tour, qui Froome potrà essere attaccato. Anche prima, sia chiaro, ma queste tre tappe rappresentano l’ultima spiaggia, quella da assaltare davvero. Alberto Contador le conosce bene queste salite, Vincenzo Nibali un po’ meno, ma allo Squalo non interessa. Lui corre d’istinto, lui corre con cuore e polmoni, attacca, ci prova. Vincenzo è spettacolo e sostanza, come Alberto del resto. Il resto sono giovani atleti pronti al lancio nei grandi palcoscenici, nelle alte classifiche, come Kwiatowski e Talansky, Thibaut Pinot e Leopold Konig, vecchi cagnacci che non mollano mai come Valverde e Joachim Rodriguez, gente tosta come Mollema e Van Garderen, Van den Broeck (se riuscirà finalmente a non cadere) e Rolland. Avanti a chi ne avrà le forze, tifando Nibali, sia chiaro.
Il Tour de France per molti anni ha avuto un copione da rispettare, inattaccabile come un dogma. La prima settimana dedicata ai velocisti e alle volate su stradoni larghi e dritti, con magari l’intermezzo di una cronosquadre tanto per movimentare la classifica, poi la prima cronometro, quella vera, di una cinquantina di chilometri, per mordere davvero la classifica. Seguivano 8/9 giorni di montagne, prima i Pirenei e poi le Alpi o viceversa a seconda degli anni, con trasferimento annesso da una catena all’altra. Poi qualche giornata buona per fughe aspettando l’ultima lunga cronometro. Infine la grande festa a Parigi. Da qualche anno questo canovaccio però è stato dimenticato, per fortuna, e il Tour è diventato altro, più bello, interessante, più somigliante al Giro che alla sua storia recente.
nel primo fine settimana a metter salita in più a quelle alpine e pirenaiche, ci sono arrivi in salita e poca cronometro, tra le altre cose al penultimo giorno, quindi muti e pedalare, “il Tour è un mostro da sconfiggere, quindi astenersi fighette”, si leggeva sull’Equipe una trentina di anni fa.
Se la prima settimana ci sarà spazio per scaramucce, dalla seconda si inizia a fare sul serio. Digerito l’antipasto ecco il primo. Ecco le Alpi, non belle e paurose come altre edizioni, ma pur sempre Alpi. C’è l’Izoard, d’accordo, il Lautaret, gli arrivi in salita a Chamrousse e a Risul, ma le cime mitiche sono altre. Sono l’Alpe d’Huez, il Galibier, il Vars e il Col de la Maddeleine, assenti quest’anno, ma giustificati. Le prime montagne a essere affrontate sono sempre l’introduzione al gran finale che attenderà i corridori sui Pirenei. È la tradizione a dirlo, quindi va rispettata e accettata, perché nel ciclismo la tradizione vale quanto la corsa che si sta osservando passare ora. Non c’è stacco, un continuo spazio temporale.